di Francesco Carlà

Affari nostri: il calcio e la borsa

del 15/05/2006
di Francesco Carlà

Carissimi Fwiani,

La Juventus e' anche quotata in borsa.

Lo ricordo perche' le vicende di questi
giorni sembrano sempre campate in aria,
e circoscritte nei livori sportivi, se
non si ricorda che esistono azionisti
piccoli e grandi che hanno tutto l'interesse,
e il diritto, di non vedere i propri titoli
manipolati (e magari massacrati) a causa
delle manovre illegali, e losche, dei manager.

E' gia' successo con Tanzi-Parmalat e
con Cragnotti-Lazio, ma anche con Sensi-Roma.

Di queste cose e' ben convinta la parte
sana, vincente in Fiat e su altri fronti,
della proprieta' e dirigenza bianconera,
formata dalla nuova Triade, Elkann-Marchionne
Montezemolo, mentre il figlio di Umberto,
Andrea Agnelli, da sempre sponsor di Giraudo,
sembra isolato e perdente.

Forse Bettega, in tribuna, piange anche
le sue stock options.

-Di Mario Monti www.corriere.it
Conservo ancora la foto con gli autografi di Gunnar Gren, Gunnar
Nordahl e Nils Liedholm, il mitico trio d'attacco Gre-No-Li del mio
Milan degli anni Cinquanta. La prima partita che mio padre mi portò a
vedere, all'Arena di Milano, quando avevo cinque anni, fu Milan-Torino
(il grande Torino di Valentino Mazzola, prima di Superga). Da quel
giorno, per decenni, sono stato un tifoso convinto.
Da molti anni non vado più allo stadio, né guardo le partite alla
televisione. Non perché non abbia tempo. Ma perché il calcio, non solo
in Italia, mi sembra sia diventato un fenomeno negativo. Certo, lo
spettacolo calcistico è sempre più suggestivo, grazie al continuo
progresso delle tecniche di gioco e delle tecniche televisive. E io
che, come è noto, sono un «tecnico», dovrei esserne felice. Invece,
provo per il calcio — intendo il grande calcio professionistico — un
crescente disgusto.

Il calcio è diventato frequente occasione, se non miccia, per la
violenza e l'intolleranza. Sotto il manto nobile dei valori dello
sport, è sempre più spesso un concentrato di dubbi intrecci tra
finanza e politica, conditi di mondanità. Scommesse illecite, rapporti
con la camorra, fideiussioni bancarie fasulle, presidenti di società
calcistiche che spadroneggiano nei dibattiti televisivi, anche se non
sempre padroneggiano la lingua italiana. E ora, a quanto pare, il
mercato degli arbitri. L'Italia rischia retrocessioni sempre più
pesanti nel drammatico campionato mondiale della competitività, anche
perché fatica ad affermarsi in essa una moderna cultura del mercato,
fondata su regole chiare e rispettate. Però, a quanto pare, un mercato
è nato e si è sviluppato: quello degli arbitri, per violare le regole,
allo scopo di prevalere nel farsesco campionato nazionale di calcio.
Se quello del calcio è divenuto un mondo a sé, che si ritiene al di
fuori e forse al di sopra della legge, lo si deve anche, secondo me,
al modo in cui i pubblici poteri, la politica, si sono a lungo
rapportati ad esso: un atteggiamento di docile subordinazione e di
ricerca del consenso presso coloro che, nel segno del calcio, sono
spesso più noti e più popolari degli stessi politici. Ciò ha
contribuito a dare a certi dirigenti del mondo calcistico un senso di
effettiva superiorità, di impunità. E se negli ambienti che ruotano
intorno a tali personaggi è questa l'aria che si respira, non deve
sorprendere che per raggiungere il successo si faccia ricorso a
qualsiasi mezzo.

Quello stato di subordinazione dei pubblici poteri al mondo del calcio
è riscontrabile non solo in Italia, ma anche altrove in Europa, in
particolare nelle altre grandi «potenze» calcistiche (Germania,
Francia, Gran Bretagna, Spagna), anche se non sembrano essersi
verificate in quei Paesi patologie altrettanto gravi. Ho avuto modo di
riflettere sul rapporto tra politica e calcio in occasione di alcuni
dossier che ho dovuto trattare come commissario europeo alla
concorrenza. L'ordinamento giuridico europeo riconosce la specificità
dello sport e rispetta l'autonomia delle organizzazioni sportive.
Quando tuttavia sono preminenti gli aspetti commerciali, vi sono
alcuni principi che devono essere osservati, in particolare a tutela
di una corretta concorrenza. Ricordo due casi: le regole Fifa-Uefa sul
trasferimento dei calciatori tra club e il cosiddetto provvedimento
«salvacalcio» adottato dall'Italia (che la Commissione esaminò
nell'ambito di un'indagine estesa alle cinque «potenze» per accertare
l'esistenza di eventuali «aiuti di Stato» alle società calcistiche).
Entrambi i casi, dopo l'apertura di formali procedure, si risolsero
consensualmente perché sia Fifa e Uefa, sia il governo italiano
accettarono le modifiche richieste dalla Commissione. In particolare,
l'Italia aderì alla richiesta di escludere esplicitamente la
possibilità che denaro dello Stato, e cioè dei contribuenti, venisse
utilizzato per coprire le perdite delle società. Ma ciò che mi colpì
in entrambi i casi fu la grande mobilitazione dei politici in difesa
degli interessi del mondo del calcio. Solo in pochi altri casi —
riguardanti questioni di portata economica, finanziaria e politica
incomparabilmente maggiore — furono esercitate pressioni altrettanto
forti.

Da parte italiana venne perfino usato l'argomento che una «bocciatura»
del «salvacalcio» avrebbe fatto saltare alcune società, che per
scongiurare questo rischio era stata minacciata una sospensione del
campionato, che i tifosi avrebbero reagito pesantemente, creando forse
problemi di ordine pubblico, dei quali sarebbe stata considerata
responsabile la Commissione. Nel caso dei trasferimenti dei
calciatori, scesero in campo in prima persona, a favore di Fifa e Uefa
e contro la Commissione, il primo ministro britannico Tony Blair e il
cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Ricordo che un giorno
quest'ultimo pregò il presidente della Commissione Romano Prodi e me
di recarci a Berlino a cena per discutere la grave questione delle
garanzie di Stato alle banche tedesche. La prima mezz'ora venne però
dedicata dal cancelliere, con nostra sorpresa, a una perorazione in
favore della Fifa (forse anche perché il suo presidente Joseph Blatter
avrebbe dovuto, di lì a poco, prendere posizione sulla candidatura
della Germania per i mondiali del 2006).

Penso che sia venuto il momento, specialmente in Italia, per una
riflessione politica sul calcio. Forse, è ora che il mondo politico
smetta di «viziare» il mondo del calcio, contribuendo
involontariamente ad indurlo ai vizi peggiori. Più ancora, i pubblici
poteri (salvo, beninteso, la magistratura) dovrebbero infliggere al
calcio il «rigore» più grave: ignorarlo. Un governo sta per nascere,
con una missione difficilissima. Ci si deve augurare che non veda
questo del calcio come uno dei problemi prioritari di cui «farsi
carico». Sarebbe un messaggio al Paese profondamente sbagliato.
E se posso permettermi, caro Direttore, spero che i giornali non
sentano ancora il bisogno di dedicare alla crisi del calcio le prime
otto o nove pagine, come fanno in questi giorni.

A presto,
Vs. Francesco Carla'



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