di Francesco Carlà

Affari nostri: L'uscita dall'Euro

del 25/09/2006
di Francesco Carlà

Cari Fwiani,

La coperta e' certamente corta.

Un debito come quello italiano, e
un deficit di bilancio come il nostro,
non sono compatibili con l'Europa e,
soprattutto, non sono compatibili con l'Euro.

Lo ricorda il Financial Times ancora una volta.

Se non correggiamo tutte e due le
storture, considerando anche i tassi di
interesse in crescita sul debito,
saremo obbligati ad uscire dalla moneta
unica, e questo significa una sola cosa:

Poverta' e debolezza per tutti.

Tutti i patrimoni italiani varrebbero
immediatamente molto di meno di quanto
valgono oggi, e tutte le fatiche fatte
per entrare nell'euro sarebbero state
vane, comprese quelle psicologiche.

Per questo la coperta va usata bene.

Come farebbe una famiglia sana,
bisognera' intervenire sulle spese
inutili e controproducenti, invogliare
i capitali ad investire in Italia lavorando
sulla burocrazia e sui vantaggi fiscali,
costringere i nullafacenti del sistema
pubblico ad adeguarsi a livelli di produttivita'
accettabili ed europei, e infine organizzare il
sistema fiscale in modo che chi debba
ricevere una fattura abbia interesse
a farsela rilasciare potendo dedurre il costo.

Il resto e' pura demagogia.


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-Pietro Ichino www.corriere.it
Il dibattito sui dipendenti pubblici nullafacenti, che nei giorni
scorsi ha ampiamente coinvolto addetti ai lavori e no (1.500
interventi in un giorno e mezzo solo nel forum aperto sul sito del
Corriere), almeno a una cosa è servito: cioè a chiarire che la scelta
di incominciare da lì, invece che da altre parti, i tagli alla spesa
pubblica è tecnicamente praticabile, con una norma abbastanza semplice
che attivi e regoli la relativa procedura collettiva. Se non lo si fa
e si decide di tagliare altrove, non è perché manchino gli strumenti
istituzionali per farlo, ma per ragioni esclusivamente politiche.

Michele Salvati ( Corriere del 3 settembre) e Paolo Leon ( l'Unità del
2 settembre) hanno pienamente ragione quando osservano che il
licenziamento per scarso rendimento dei nullafacenti non è la cura
dell'inefficienza della pubblica amministrazione: per questa occorre
un discorso assai più complesso e articolato. Ma, nella stretta
finanziaria che oggi attanaglia il Paese, quella è pur sempre
un'opzione possibile in alternativa al prepensionamento dei
cinquantenni, al mantenimento dei giovani precari nella inammissibile
posizione di «figli di un dio minore», ai tagli sugli investimenti
necessari allo sviluppo del Paese. Salvati sottolinea
condivisibilmente le cause strutturali dell'inerzia dei dirigenti
pubblici (e quale inerzia! A quanto risulta dai repertori, negli
ultimi dieci anni non vi è stato neppure un solo caso di licenziamento
per scarso rendimento su tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici);
ma proprio per questo l'opzione del rigore oggi è praticabile solo con
una procedura di riduzione dell'organico attivata per legge, centrata
sui criteri della massima inefficienza e improduttività, e una
disciplina processuale che garantisca l'effettività dell'operazione,
non meno che la sua correttezza e il sacrosanto diritto di difesa di
ciascun lavoratore coinvolto.
In molti hanno messo in rilievo il problema etico- politico cruciale
sotteso a una scelta di questo genere: il fatto che l'improduttività
del lavoratore può non essere dovuta a sua inefficienza personale
(scarso impegno o inettitudine professionale), bensì a carenze
organizzative o strumentali.

Ma è facile rendersi conto che questo problema non si pone nei casi in
cui è pari o vicino allo zero non solo l'indice della produttività, ma
anche quello dell'attitudine e dell'impegno personale. E oggi abbiamo
strumenti sofisticati per valutare sia l'un dato, sia l'altro. Certo,
a chi perde il posto deve essere assicurata tutta l'assistenza
possibile; ma si tratterà, appunto, di assistenza e non di stipendio.
Chiamare le cose col loro nome è un primo passo importante sulla via
del risanamento.

Il dibattito di questi giorni ha infine reso evidente il favore
dell'opinione pubblica prevalente verso questa opzione, confermato
dall'indagine di Renato Mannheimer. E il presidente del Consiglio ha
avuto il grande merito di rispondere positivamente senza esitazione,
ribadendo l'impegno di combattere le posizioni di rendita dovunque si
annidino, anche nell'impiego pubblico. Questo però non ha impedito che
su di un «no» secco si sia invece registrata la più monolitica e salda
unità d'azione dei sindacati, dai Cobas alla Ugl: tutti compatti
nell'affermare che la questione va affrontata soltanto con i
miglioramenti organizzativi, la mobilità interna all'amministrazione e
gli incentivi alla produttività; mai con i licenziamenti.
Con questa chiusura ermetica i sindacati del settore pubblico perdono
un'occasione importante per togliersi di dosso l'immagine di difensori
dei nullafacenti.

Sarebbe però già un passo avanti importante se nei giorni prossimi,
quando si apriranno i negoziati per il rinnovo di alcuni tra i più
importanti contratti collettivi nazionali del settore, essi non
faranno il «gioco delle tre carte», ma confermeranno le aperture della
settimana scorsa almeno sulla politica della mobilità e degli
incentivi. I negoziatori pubblici farebbero bene a verificarlo,
chiedendo subito una risposta concreta e precisa a questi
interrogativi, cui l'intera collettività è interessata: — quali
sindacati del settore sono davvero pronti ad accettare un meccanismo
di mobilità vincolante, in base al quale i dipendenti possano essere
trasferiti dagli uffici e funzioni dove c'è sovrabbondanza di organico
a quelli dove c'è invece carenza, entro un raggio ragionevole?

— quali sindacati del settore sono pronti ad accettare che una
componente importante della retribuzione sia ancorata ai risultati
raggiunti, in riferimento a obiettivi prestabiliti comparto per
comparto, ufficio per ufficio (per esempio, una componente del 40% del
totale per i dirigenti e i funzionari di livello più alto, una
componente vicina all'intero aumento contrattuale per gli impiegati
medi e bassi)?

— per evitare l'ennesima distribuzione a pioggia di questo incentivo,
quali sindacati sono pronti a concordare che esso possa essere erogato
nella misura massima solo a una certa quota dei lavoratori interessati
(ad esempio: a non più del 20% dell'organico) e nelle misure inferiori
via via per altre quote, restandone esclusa una fascia bassa pari ad
almeno un quarto o un quinto della categoria?

I sindacati che, dopo aver escluso il licenziamento dei nullafacenti
invocando mobilità e incentivi come valide alternative, non fossero
disposti a impegnarsi seriamente su questi tre punti, non sarebbero
più credibili: essi si prenderebbero gioco del governo e dell'opinione
pubblica.


A presto,
Vs. Francesco Carla'






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